Non m’era
piaciuto da subito, non saprei dire perché. Forse il brutto tatuaggio, la
postura un po’ curva, gli scarponi pesanti in pieno luglio, il fatto che fosse
l’unico a non sorridere, a non dare il benvenuto ai clienti, a noi, che avremmo
fatto immersioni lì per due settimane. Sembrava un orco. Avaro di parole,
sistemava l’attrezzatura, riempiva le bombole, caricava il furgone, aggirandosi
tra mute ed erogatori con gli scarponi da montagna, e come facesse a
sopportarne il peso, con quel caldo umido, lo sapeva solo lui. Andava sempre in
acqua con due tizi inglesi, padre e figlio, pallidi e magri ma con la pancia da
birra, in mutino corto nonostante l’acqua raggiungesse a stento i 18 gradi.
Anche loro non erano granché affabili, ma non si può sempre fare amicizia con
tutti, non si può sempre piacere a tutti.
Io mi godevo le
immersioni col mio compagno e la mia guida, e con gli inglesi e l’Orco ci si
incontrava al diving giusto al mattino e alla sera, si condivideva niente di
più che l’acqua delle vasche (ma cercavo sempre di essere la prima a sciacquare
la muta) e poi ognuno per la sua strada, salutandosi appena.
Fino
all’ultimo giorno.
“Oggi andate
con lui.”
Mi si strizza
lo stomaco. Vorrei chiedere perché, ma il perché è evidente: la nostra solita
guida non c’è. Allora vorrei dire no, non ci vado, ma il mio compagno sta già
montando e poi mi dico: che scene fai?
L’Orco e gli
inglesi in braghette sono già pronti, bombola in spalla e maschera al collo: è
un tuffo da riva, c’è da camminare un po’, loro intanto vanno. Ci prepariamo in
fretta e nel percorso verso la spiaggia, carichi, in semistagna, sotto il sole
e col calore dell’asfalto che incendia i calzari, sudiamo come maratoneti nel
deserto.
Quando
arriviamo, i tre stanno ridendo. No: sghignazzano, che è diverso. Ma ho troppo
caldo per badare a loro, entro in acqua e allargo il collo della muta, lascio
che l’acqua fredda entri a darmi sollievo, a riportarmi in vita, a restituirmi
il respiro. Vorrei restare un minuto così, a mollo, a riprendere fiato, a riportare
il cuore a un ritmo normale, ma quelli indossano la maschera e scendono.
Il mio compagno
mi guarda come a dire mi dispiace, bisogna che ci muoviamo, e allora
scendiamo anche noi.
La visibilità
è buona e l’immersione, nonostante le antipatie, è bella: cernie e pesci
pappagallo scivolano zitti tutt’intorno, un polpo esegue una danza bizzarra prima
di tornare in tana, due murene si affacciano a chiedere chi siamo, una
processione di barracuda d’argento sfila davanti ai nostri occhi affamati di bellezza.
Tutto bene,
benissimo, ma siamo sotto da quasi un’ora ed è tempo di tornare. Risaliamo,
pinneggiamo verso riva, tra banchi colorati di donzelle e castagnole, e la
vista di un cavalluccio marino mi commuove.
Tutto bene.
Benissimo.
L’Orco,
seguito dagli inglesi coscina di pollo, tira fuori da una tasca uno strano
oggetto metallico; si avvicina a uno scoglio e con un colpo secco fa a pezzi un
riccio.
Il cuore mi si ferma. Decine di pesci si affollano attorno all’Orco e
ai due coscina di pollo, che si divertono e ne vogliono ancora. L’Orco fa a pezzi un altro riccio, poi un
altro, l’acqua diventa torbida e frigge di pesci e io, che fuori dall’acqua lo
insulterei come un cane, là sotto, muta più dei pesci, non posso dire, non so che
fare. Resto a guardare la scena, allibita. Il mio compagno mi stringe una mano,
scuote la testa, mi fa segno di proseguire, di lasciarli lì, che tanto ormai
siamo quasi arrivati.
Prima di
rimettere in moto le pinne, raccolgo un pezzo di riccio senza sapere perché.
Usciamo
dall’acqua senza dire una parola, torniamo al diving, riempiamo la vasca e
sciacquiamo le nostre cose nell’acqua pulita. Io faccio tutto reggendo sempre
tra le dita il pezzo di riccio.
Raccolgo l’attrezzatura,
infilo i vari pezzi nella borsa uno dopo l’altro, senza check, in modo
meccanico, senza la solita preoccupazione di aver dimenticato qualcosa.
Borsa in
spalla, dobbiamo andare, si torna a casa.
Subito prima
di uscire, l’occhio mi cade su qualcosa che, in un diving, stona: un paio di
scarponi da montagna.
Gli scarponi
dell’Orco.
E finalmente
capisco cosa devo fare col pezzo di riccio.