“Ehi, ma’, allora vengo a Milano sabato!”
Ma lei mi conosce bene e sente che,
sotto il centimetro di entusiasmo di cartone, il mio cuore è appiccicoso.
“Facciamo che ci vediamo un’altra
volta e tu vai a trovare i tuoi amici pesci?”
“Ma no, dai, ma’…”
Non vado in acqua da un mese e il
meteo promette meraviglie: mi lascio convincere in un istante e sorrido. Ma il
sorriso, lo sento, non arriva agli occhi.
Quando, alle sei, la sveglia suona,
l’Omonero è già in giro a organizzare cose. Io, invece, non riesco ad alzarmi,
gli occhi sono sigillati e lasciare il tepore del letto mi costa uno sforzo
enorme.
Le uniche parole che pronuncio sono
quelle della check list: pinne, calzari, muta,…
La giornata è perfetta: tiepida,
limpida; il mare è perfetto: calmo, blu.
Al diving saluto gli altri. È un
po’ che non li vedo, dovrei essere contenta. Ma le mie braccia sono rigide
negli abbracci e, al rituale del come va,
esito prima di rispondere bene, e tu?
Montiamo l’attrezzatura. Ho 180 bar
nella bombola. “Basteranno,” penso.
Il gommone salta sulle onde e si ferma alla secca Gonzatti.
“Sei contenta? Ci volevi andare!” dice l’Omonero.
Annuisco.
Ci prepariamo, e la fonte d’aria
alternativa dell’Omonero va in continua.
Cioè sputa aria per i cazzi suoi. Chiudi la bombola, apri la bombola. Niente da
fare. Sto per aprirmi il gav e rinunciare, quando finalmente l’erogatore smette
di rompere.
Scendiamo nel blu e ci ritroviamo
in mezzo a barracuda e castagnole; li guardo come in tv.
Le gorgonie rosse, tantissime, dovrebbero
strapparmi il cuore.
La visibilità è buona, seguiamo una
grossa cernia vanesia che si presta volentieri a farsi fotografare da Paparazzo
Abissale e da Eroe; poi si stufa, inverte la marcia e ci ritroviamo, io e lei,
muso a muso; la vedo chiaramente alzare gli occhi al cielo. Sospiro e le cedo
il passo: è casa sua.
Proseguiamo. Io mi allontano un po’
dalla parete, ipnotizzata dal blu.
La corrente e un pensiero cattivo
mi trascinano via.
Il respiro si fa affannoso, allungo
una mano verso l’Omonero che mi afferra, mi riavvicina alla parete, mi stringe,
mi calma. Restiamo così, per mano, per il resto dell’immersione. Osservo lo
spettacolo di due cernie che lottano, bocche aperte e pinne dorsali rizzate. Nessuna
emozione mi attraversa.
Il respiro è ancora corto, guardo il manometro anche se
l’avevo fatto due minuti prima: 50 bar? Cazzo. Segnalo subito a Paparazzo
Abissale che, forse non fidandosi del secondo stadio dell’Omonero, mi attacca
a Eroe.
Non mi era mai successo.
Sono mortificata, non faccio che pensare, in
modo malsano e in loop, perché diavolo non ho chiesto che mi rabboccassero la
bombola.
Imbecille.
Idiota.
Guastafeste.
Sono lì, in sosta, come una bestiola al guinzaglio; occhi fissi sul computer: meno tre minuti, meno due. Sento uno strattone, alzo
la testa e vedo Eroe che si allunga verso una sirena, trascinandomi.
Eroe mi fa segno di riprendere il
mio erogatore, ci dividiamo, lui insegue la sirena che, armoniosa, nuota verso
il fondale e verso una torpedine che vola e…
Niente, non sento NIENTE.
Ed è lì
che capisco.
Sei tornata, maledetta.
Senza
preavviso.
Senza neanche il pretesto di un giorno di pioggia, di un tappeto di
foglie.
Così, come un pugno in faccia.
Ma non t’illudere: questa volta, non mi avrai.