In due soli giorni
il nostro respiro, mio e dell’Omonero, si è fermato due volte: la bomba a
Boston, il terremoto in Iran. La numerosa famiglia di Bak, che da oltre dieci
anni è anche la mia, vive in parte a Boston, in parte in Iran.
L’epicentro del
terremoto era a sud, dunque lontano da Teheran e da Gorgan, le città dove
vivono Papino, la zia Cozza, Amù Sibilù, la famiglia Polpetta.
Primo sospiro.
Per una serie di
coincidenze (e poi ditemi che il fato non esiste) nessuno dei nostri cari era
alla maratona di Boston: il marito della cugina Susan quest'anno non ha partecipato, il
cugino Parham ha deciso di non portare sua figlia a vedere i corridori al traguardo, mamma Ati non
era in città.
Secondo sospiro.
Stamattina un amico
mi gira un articolo dal titolo The Boston Marathon Bombing and the Limits of
Human Empathy: la gente freme
d’orrore e si scioglie in lacrime d’angoscia di fronte alle vicende di Boston,
ma resta fredda e indifferente davanti a chi ogni giorno muore sotto le bombe
degli americani.
What are the limits of human empathy? 3 people were killed and many dozens injured
and maimed by the Boston Marathon bombing on Monday. By comparison, many more
people are killed by American drones and other weapons of war on a weekly, if
not daily basis, across the Middle East and in
other parts of the world.
The language of "war" and
"terrorism" deems these people not human, but rather
"targets" and "terrorists" to be "neutralized."
L’autore
dell’articolo, in soldoni, si chiede perché i morti di Boston ci facciano
piangere e quelli in medio oriente no. Si chiede quanto debbano essere lontani,
quanto debbano essere diversi da noi gli uomini perché il loro dolore non ci
tocchi.
Entro certi limiti
potrebbe pure essere normale una sorta di “graduatoria”. Cioè: mi fa male pensare alle vittime del terremoto in Iran e ai morti
di Boston, ma se ci fosse stato lì in mezzo qualcuno dei miei familiari starei
peggio.
Però.
Sarà che sto
vivendo il momento più difficile della mia vita, e che di fiducia nel genere
umano non ne ho più, ma a me viene da fare la domanda alla rovescia: quanto
devono essere vicini, quanto devono essere simili a noi le persone perché il
loro dolore sia anche il nostro? Per riuscire a provare empatia?
Copincollo da
Wikipedia la definizione di EMPATIA.
L'empatia è la
capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di
gioia, che di dolore. Empatia significa “sentire dentro” ed è una capacità che
fa parte dell’esperienza umana. Si tratta di un forte legame interpersonale e
di un potente mezzo di cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile
riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece significa andare non
solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo. Essa rappresenta
inoltre la capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i pensieri
e gli stati d'animo di un'altra persona. L'empatia è dunque un processo: essere
con l'altro. L’empatia costituisce un modo di comunicare nel quale il ricevente
mette in secondo piano il suo modo di percepire la realtà per cercare di far
risaltare in se stesso le esperienze e le percezioni dell'interlocutore. È una
forma molto profonda di comprensione dell'altro perché si tratta
d'immedesimazione negli altrui sentimenti. Ci si sposta da un atteggiamento di
mera osservazione esterna (di come l'altro appare all'immaginazione) al come
invece si sente interiormente (in quei panni, con quell'esperienza di vita, con
quelle origini, cercando di guardare attraverso i suoi occhi).
“Nessuna empatia
per i figli del medio oriente,” dice il tizio dell’articolo.
“E per quelli che
ci abitano di fianco invece sì?” chiedo io.
Per quelle del
terremoto in Abruzzo?
Per il tizio del
palazzo di fronte che ha perso la moglie?
Per il fruttarolo
di sotto che gli hanno bruciato il furgone?
Quanto vicine devono
essere le persone perché le loro vicende ci tocchino?
Quando, un anno e
mezzo fa, la società per cui lavoro è stata venduta, dei cinquecento dipendenti
solo uno ha perso il lavoro.
Uno.
E non era uno di
una qualche misteriosa sede distaccata, uno che a malapena sai che esiste, era
uno che da quattro anni lavorava con noi, culo a culo.
Uno bravo.
Uno che però non
era disposto a sposare la società. Uno che col cacchio che passava le sere e i
fine settimana in ufficio. Uno che per quattro anni (quattro!) gli han fatto
contratti a termine, sperando così di ricattarlo, di convincerlo a
immolare il suo tempo libero, di barattare la sua devozione con un contratto vero.
Non ha mai ceduto, e così, cogliendo l’occasione del cambio dei padroni,
l’hanno lasciato a casa.
Anche se qui c’è
bisogno di lui.
Anche se viviamo
uno dei peggiori momenti di crisi della storia e tutti sanno che trovare un
altro lavoro è durissima.
E quelli che per
quattro anni hanno lavorato con lui l’hanno sentita, l’empatia?
Come no.
“Lo sai? Non gli
rinnovano il contratto, da dicembre è a casa.”
“Eh, beh. D’altra
parte, se l’è cercata. Sempre così poco disponibile...”
Tutti a guardare
dall’altra parte. Tutti sollevati che sia successo a lui e non a noi. Una
scrollata di spalle e via.
Empatia.
Siamo capaci di sentire
dentro solo se muore nostra madre.
E anche in quel
caso, mi chiedo se in fondo non ci sia una vocina a dire fortuna che non ci
sono io, su quel cazzo di letto di raso nero.