mercoledì 29 gennaio 2014

Scintilla

Scintilla - Charles Bukowski


Mi hanno sempre irritato tutti gli anni, le ore i
minuti che gli ho regalato lavorando come un mulo,
mi ha fatto seriamente male alla testa,
mi ha fatto male dentro, mi ha stordito
e mi ha fatto diventare pazzo - non riuscivo ad accettare
questi miei anni assassinati
eppure i miei compagni di lavoro non davano segni di
agonia, anzi molti di loro sembravano addirittura soddisfatti,
e vederli così mi faceva impazzire quasi quanto
quel lavoro monotono e insensato.

I lavoratori sottostavano,
il lavoro li annientava, venivano
raccolti col cucchiaino e buttati via.

Mi irritava ogni minuto, ogni minuto mentre veniva
mutilato
e nulla alleviava la noia.

Ho valutato l'ipotesi del suicidio.
Mi sono bevuto le poche ore di libertà.

Ho lavorato per decenni.

Ho vissuto con la peggiore specie di donne,
e loro hanno ucciso
quello che il lavoro non era riuscito ad uccidere.

Sapevo che stavo morendo.
Qualcosa dentro mi diceva: continua così, muori, spegniti,
diventa come loro, accettalo.
E poi qualcos'altro dentro diceva: no, salva un pezzetto
minuscolo.
Non importa che sia molto, basta solo una scintilla.
Una scintilla può incendiare un'intera
foresta.
Solo una scintilla.
Salvala.

Penso di esserci riuscito.
Sono fiero di esserci riuscito.
Che stramaledetta
fortuna.




mercoledì 15 gennaio 2014

Tre poesie di Raymond Carver.

Tre poesie per dire che Raymond Carver è il mio preferito. 
Ne sarebbe bastata una. Fossi stata capace di scegliere.




COMPAGNIA

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.


ATTESA

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
"Come mai ci hai messo tanto?"


LA POESIA CHE NON HO SCRITTO

Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.



mercoledì 1 gennaio 2014

Il peso

Liz Moore
Il peso
Neri Pozza

Oggi è il primo giorno dell’anno. 
Ho dormito fino all’una, non ho detto una parola per tutto il giorno: post-bagordi. Succede così. Mi sono trascinata dal letto al divano, ho messo un disco, poi un altro e un altro e mi sono messa a leggere. Non ho fatto altro, sette ore così. Ho finito Il Peso, di Liz Moore, e ora, come promesso agli amici di Peek-a-book, ne scrivo.
Quando l’ho cominciato, quattro giorni fa, uscivo provata da Il petalo cremisi e il bianco (Michel Faber), e avevo bisogno di qualcosa di molto diverso. Non sapevo cosa, non sapevo “diverso come”, e mi sono messa a leggere gli incipit dei libri in elenco per Women Challenge. L’intenzione era quella di leggere un paio di pagine per ognuno e scegliere da quale partire.
Due pagine della Yoshimoto.
Due pagine della Delijani.
Due pagine della Moore.
Anzi tre.
Anzi trenta.
Anzi trecentocinquantadue. In apnea.

Cominciamo con la storia.
New York.
C’è un ex-professore quasi sessantenne, obeso come riescono a essere obesi solo da quelle parti (Non ho modo di sapere esattamente quanto peso, ma credo di essere tra i duecentoventi e i duecentosettanta chili), che non esce di casa dal 2001. Ordina montagne di cibo via internet, trascorre le giornate davanti alla tv, butta la spazzatura di notte, dalla finestra, per non farsi vedere. La sua casa è un cesso di avanzi di cibo e riviste, o almeno così è al piano terra. I due piani superiori, dove ci sono le camere, non si sa in che stato siano, perché Arthur Opp non è più in grado di andarci. Inutile dire che è solo, vero? L’unico contatto con la vita sono le lettere che si scambia con un’ex-studentessa, Charlene.
C’è un ragazzino, una promessa del baseball, un ragazzino dei quartieri poveri che però va a scuola coi ricchi, perché sua madre, alcolizzata, disoccupata, depressa, vuole per lui una vita migliore. Sua madre, sì. Charlene. La stessa Charlene che vent’anni prima andava a lezione da Athur Opp.
Due vite che viaggiano, l'una ignara dell'altra. Finché.

E ora, il come. Come questa storia è raccontata. Gesù, che roba.
Immaginatevi alla finestra. State stendendo, è una bella giornata ventosa e i vestiti si asciugheranno in un niente. A questo pensate, ai vestiti asciutti, mentre una molletta cade a terra. Vi chinate a raccoglierla e quando vi tirate su, chissà perché, non badate alla finestra aperta. E prendete in pieno lo spigolo di alluminio, nel centro della testa.
Ecco: quel dolore lì, così violento, così inatteso, vi colpirà di continuo per tutte le trecentocinquantadue pagine.

Così:
Era Charlene Turner. Non credevo che avrei mai più sentito la sua voce in vita mia ma Dio come ne sono stato felice. Ero lì lì per lanciare un grido ma mi sono costretto a tacere. Mi sono messo una mano sulla bocca e mi sono morso il palmo.

E così:
E poi questa mattina, visto che non avevo nient’altro da fare, mi sono seduto a scriverle la lettera che ho continuato a ripetermi nella testa, la lettera che dice la verità, l’ammissione taumaturgica dei miei segreti più oscuri, la lettera che sapevo avrei dovuto spedirle se ci fossimo incontrati di nuovo. La lettera che le avrei inviato in quel momento se non mi fossi comportato come un gran vigliacco. Il vigliacco che in realtà sono.

Insomma ci siamo capiti. Fa un male cane. Eppure non è una storia disperante, al contrario. Quando finalmente arrivi in fondo all’ultima pagina (ed è il caso di dirlo, finalmente, perché quando ci arrivi quel peso lì non lo sopporti più), prendi un respiro gigante, il più profondo che i tuoi polmoni siano in grado di reggere. 
Resti un attimo appeso. 
Espiri piano, e a lungo.
E sorridi. 
Senza peso.