lunedì 10 dicembre 2012

Ma tu ci credi agli UFI?


Tanto tempo fa vivevo in un appartamento spettinato e splendido in piazza Matteotti: ultimo piano e terrazzo con vista sulla città. 
Cinque camere da letto e sei femmine.
C'era Santalalla, occhi obliqui e trasparenti, bella come una Madonna, che preparava i ravioli per tutte e raccoglieva le nostre lacrime. Angelo e demone, farla incazzare non era una buona idea.
C'era La Puddu, una Audrey Hepburn in versione sexy. Difficile da immaginare? Perché non la conoscete. E non l'avete mai vista preparare i ripieni alla ligure coi capelli nerissimi raccolti in uno chignon disordinato. Quei riccioli sul collo...
C'era La So', gambe lunghe e un culo che faceva gridare al miracolo. Vederla ballare era una gioia per gli occhi.
C'era La Alle, zazzera punk e occhi da cerbiatto, che girava sempre con la valigia e non sapevi mai se partiva o arrivava.
C'ero io, La Bale, sfacciata e impudica, sempre in mutande per la gioia del vicino giudice.
E c'era Nina, la gatta. Nera, gli occhi arancioni, era la vera regina del focolare.

Un giorno torno a casa e sul terrazzo trovo Santalalla, La Puddu e una montagna di gessetti colorati.
"Ciao Bale! Ci aiuti?"
"A fare che?"
"Abbiamo deciso che questa casa diventerà un Bed and Breakfast per gli alieni. Dobbiamo disegnare l'insegna e la pista di atterraggio per gli UFI."
"Fico."

C'era l'insegna, c'era la pista, ma nessun UFO è mai atterrato sul nostro terrazzo. Quando la pioggia ha cancellato tutto, abbiamo usato i gessetti avanzati per scrivere SUCA agli elicotteri degli sbirri.

Gli alieni non esistono. Oppure sono bulicci.


martedì 27 novembre 2012

Spleen


 

Spleen
Charles Baudelaire

Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio
Sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni,
E versa abbracciando l'intero giro dell'orizzonte
Una luce diurna più triste della notte;

Quando la terra è trasformata in umida prigione,
Dove come un pipistrello la Speranza
Batte contro i muri con la sua timida ala
Picchiando la testa sui soffitti marcescenti;

Quando la pioggia distendendo le sue immense strisce
Imita le sbarre di un grande carcere
Ed un popolo muto di infami ragni
Tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,

Improvvisamente delle campane sbattono con furia
E lanciano verso il cielo un urlo orrendo
Simili a spiriti vaganti senza patria
Che si mettono a gemere ostinati

E lunghi trasporti funebri senza tamburi, senza bande
Sfilano lentamente nella mia anima vinta; la Speranza
Piange e l'atroce angoscia dispotica
Pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo


lunedì 26 novembre 2012

Subbi Niubbi


Articolo addolcito e pubblicato su Scubazone n.9

Premessa (a scanso di equivoci): il testo seguente è ironico. 
Il forum di cui parlo è eccezionale e i SuperSubbi sono i miei adorati guru.

Quando ho iniziato la carriera subacquea, un anno e mezzo fa, eccitata e curiosa di scoprire un mondo, mi sono iscritta a un forum pieno zeppo di SuperSubbi. Poiché ritengo che l'unica domanda idiota sia quella non fatta, ho iniziato a tartassare:
  • come si fa a capire se un diving è serio?
  • perché a me la bombola dura sette minuti e agli altri un'ora?
  • perché mi galleggia il culo?
Mi è stato gentilmente consigliato, nell'ordine:
  • di darmi all'ippica;
  • di fare immersioni nella vasca da bagno;
  • di comprarmi una paperella.
C'era perfino uno che voleva triturarmi nelle eliche di un aeroplano.
Grazie  alla mia sfacciataggine, che farebbe cagare sotto un ariete (cit.), non mi sono arresa.
E ho continuato a chiedere:
  • Come scelgo la muta?
  • Le mute vanno tutte bene. Vai e compra quella che ti sta meglio.
Segue una lite incomprensibile tra SuperSubbi su neoprene e trilaminato, ma io, con la mia risposta, vado al negozio, provo un po' di mute e scelgo quella che si adatta meglio alle mie curve. Che, incidentalmente, è rosa. Io odio il rosa, ma le altre mute mi facevano difetto ovunque - spalle strette, vita larga, manica corta - e così dico va be'.
  • E le pinne? Come scelgo le pinne?
  • Le pinne vanno tutte bene. Vai e compra quelle che ti calzano meglio.
Segue una lite incomprensibile tra SuperSubbi sulla pinneggiata a rana, ma io, con la mia risposta, vado al negozio e provo un po' di pinne. Tra quelle che mi calzano meglio, ce n'è un paio rosa. Così mi dico: se rosa dev'essere, che rosa sia. A terra scarrafone, in acqua flabellina. 
  • Ho deciso di comprarmi il gav. Mi date una mano?
  • I gav vanno tutti bene. Vai e compra quello che ti piace di più.
Segue lite incomprensibile tra SuperSubbi sulla postura da tenere in acqua, ma io, con la mia risposta, vado al negozio (che stappa una bottiglia ogni volta che mi vede) e mi provo tutti i gav. Mi paiono in effetti tutti uguali. Così lo scelgo. Rosa.

Si avvicina il mio quarantesimo. 
  • Nella letterina a Babbo Compleanno vorrei scrivere che mi serve il computer. Ma quale?
  • I computer vanno tutti bene. Compra quello che ti piace di più.
Segue lite incomprensibile tra SuperSubbi sulle mele rosse e verdi, ma io, con la mia risposta, scelgo dal catalogo un computer rosa.

Sul gommone con mille SuperSubbi, ostento fiera la mia attrezzatura scintillante. Uno scarrafone mi squadra e dice:
"Eccola lì, un'altra che sceglie l'attrezzatura in base al colore!"

E va be', ma allora...


domenica 18 novembre 2012

Bevendo e guidando




Agosto. In sei mesi
non ho letto un libro
a parte una cosa intitolata La ritirata da Mosca
di Caulaincourt.
Comunque sono contento,
vado in macchina con mio fratello,
beviamo una pinta di Old Crow.
Non abbiamo in mente nessuna meta,
andiamo e basta.
Chiudessi gli occhi per un momento
ecco, sarei perduto, ma
potrei stendermi e dormire per sempre
sul ciglio della strada.
Mio fratello mi dà di gomito.
Tra un minuto, chissà, accadrà qualcosa.

Raymond Carver

Non avevo mai letto Carver. Aspettavo il momento giusto. 

domenica 11 novembre 2012

Senbee Resta con me



Giornata massacrante. Sogno divano, coperta, gatti e playstation.
Arranco per i sei piani di scale e, mentre apro la porta di casa, sento delle voci. “L’Omonero avrà di nuovo lasciato il televisore acceso,” penso. Ma quasi muoio d’infarto quando mi trovo in soggiorno un capoccione: la stessa corporatura della mia lavatrice, camice bianco e pantofole, le mani appoggiate sul mio nuovo televisore al plasma; sudato, disperato, grida: “Togli quella cacca dal letto! Mi senti? Ti ho detto mille volte che non devi portare la cacca a casa!”
“Senbee?” dico, mentre la borsa mi cade per terra. Lui non sembra avermi sentito.
“Ehm… Dottor Norimaki?”
Macché, non mi fila.
“Arale, dannazione! Piantala, piantala, piantala!”
Idea: tolgo il cappotto, mi avvicino, sollevo la gonna, lo chiamo: “Dottor Slump?”
Il sesto senso del porcello lo fa voltare: faccia a faccia con le mie mutandine, gli occhi schizzano dalle orbite e uno spruzzo di sangue dalla narice sinistra allaga il pavimento. Appena abbasso l’orlo della gonna, però, lui ricomincia a prendere a pugni il televisore. Afferro il telecomando, spengo e Senbee si immobilizza davanti al nulla. Tocca lo schermo, ci gira intorno.
“Hai una cassetta degli attrezzi?” dice.
“Per farci cosa?”
“Devo invertire il flusso. Voglio tornare a casa prima che quella peste combini troppi guai!”
“Quanta fretta, Senbee! Non vuoi neanche sapere dove sei finito?”
“Come sai il mio nome? Ci conosciamo?”
“Tutti qui ti conoscono. Sei molto famoso!”
Lui d’improvviso diventa alto e bello e il sorriso gli scintilla. Trattengo la risata a fatica: mi fa ammazzare quando fa il figo!
“Accomodati,” gli dico.
“Ehi, senti, mi dispiace per…” dice, indicando la pozza di sangue.
“Non preoccuparti, l’avevo messo in conto. Ora pulisco. Non toccare niente, per favore, finché non torno.”
“Va bene.”
In bagno col pretesto dello straccio, telefono all’Omonero.
“Hai lasciato di nuovo il televisore acceso!”
“Scusa, B, hai ragione, è che…”
“Non hai capito, non ti stavo rimproverando! È successa una cosa assurda: il Dottor Slump è nel nostro soggiorno!”
L’Omonero tace qualche secondo. Poi: “B, hai bevuto?”
“No, macché! È di là, te lo giuro, dev’essere passato dalla tele in qualche modo!”
“Veramente? Fagli costruire la Pistola Transformer!”
“Così trasformo la vicina in uno scarafaggio! Però voglio anche la Pentola Concretizzante, che ci butto una ricetta e in quattro e quattr’otto la cena è pronta!”
“E io voglio gli occhiali a raggi x!”
“Quelli te li scordi.”
“Uffa.”
“Comunque, non sarà facile convincerlo a restare: stava già cercando il modo di smontare il televisore per tornare a Villaggio Pinguino.”
“Il televisore nuovo? Fermalo, fermalo, per carità!”
“Ci provo. Ora torno di là, che devo anche pulire un mare di sangue.”
“B! Gli hai fatto vedere le mutande!”
“Non avevo altra scelta: non mi dava retta!”
“Bella scusa! Poi dici a me.”
“Eddai. Torna presto.”
“Appena finito di lavorare.”
Armata di straccio e secchio, torno in soggiorno. Senbee è sparito.
“Ma dove caz…”
Un rumore viene dalla cucina.
“Che stai facendo?” dico.
“Il tuo tostapane è rotto. Te lo sto riparando.”
“Ma non mi sembrava…” Il campanello mi interrompe. Oddio, e chi è ora? Butto lo straccio a coprire la macchia di sangue e apro la porta: è la vicina napoletana spaccapalle.
“Buonasera, signuri’. Scusate, ma ho sentito dei rumori e mi sono un poco preoccupata.”
“Scusi, signora, è venuto a trovarmi un vecchio amico. Mi spiace averla disturbata.”
Non mi accorgo del testone di Senbee che sbuca dalla cucina. La vicina sgrana gli occhi.
“Signorina, ma voi tenete nu’ cartone animato in casa? Ma l’amministratore lo sa?”
“Non ancora, signora, lo avviso prima possibile.”
Lei allunga il collo.
“Ma non sarà pericoloso?”
“Pericoloso? E perché mai!”
Un tostapane  con le scarpe da tennis inizia a correre per il soggiorno sputando fette abbrustolite a puntino, inciampa nello straccio e scopre la pozza di sangue. La vicina fugge urlando: “Domani lo chiamo io l’amministratore! Voi siete una strega! Un’assassina!”
“Senbee, ma che hai combinato?”
“A che serve un tostapane che non ti porta la colazione a letto?”
“A tostare il pane?”
Mi guarda sconcertato.
“Vieni, siediti un po’ qui: ti faccio vedere una cosa.”
Impallidisce.
“Non QUELLA!”
Si siede sul divano, buono buono, le mani in grembo, e fissa malinconico lo schermo nero del televisore. Dalla libreria prendo tutti i numeri de “Il Dottor Slump e Arale” e li appoggio in ordine sparso sul tavolino.
“Che ti dicevo? Sei famoso qui!”
Senbee inizia a sfogliare il numero tre, l’episodio Mutandine e Fragoline. “Tutta colpa di quello stupido maiale. Quella volta ce l’avevo quasi fatta!”
“Il piano era perfetto, Senbee, non è stata colpa tua. Non sei stufo di fallire, lì a Villaggio Pinguino? Non ti piacerebbe cambiare vita?”
“Io… Beh, ecco…”
“Qui è pieno di belle ragazze. Sei famoso, sei affascinante.”
“E bello.”
“Soprattutto bello. Potresti fermarti un po’ da noi e vedere come va. Puoi tornare a casa quando vuoi, se non ti piace.”
“E cosa farà Arale senza di me? E Gacchan? E la Professoressa Yamabuki?”
Mentre lui si perde nei pensieri, gioco la carta vincente: accendo il televisore su un canale hard.

“Beh? Dov’è?”
“Shht, zitto! È appena andato a dormire!”
“L’hai convinto a restare?”
“A fare una prova.”
“E come hai fatto?”
“Donnine.”

“B, hai comprato la Cocacola?”
“Sì, è in dispensa. Agitala bene prima di versarla nel serbatoio. Ma dove vai con l’aereo?”
“A prendere Senbee. Con questo traffico se vado in macchina non arrivo più.”
“Cosa volete per cena?”
“Ho comprato un ricettario nuovo: lancia nella pentola la pagina trentasette.”

“Cosa c’è Senbee? Non ti piacciono le lasagne?” dico.
“Sono buonissime. È che oggi al laboratorio mi sono stancato. Vado a riposare, se non vi dispiace.”
“Certo, vai. Buonanotte.”
Slump si chiude in camera sua e l’Omonero scuote la testa.
“B, Senbee non è contento.”
“Magari è davvero stanco.”
“Lo sai cosa fa quando si chiude in camera?”
“No e, conoscendolo, non so se voglio saperlo.”
“Legge i suoi fumetti. L’ho sentito ridere. E piangere, a volte.”
“Oh no. Cosa possiamo fare?”
“Lo sai.”
Certo che lo so.

Ci alziamo da tavola, bussiamo alla porta della sua stanza. Apre spettinato, con gli occhi rossi. “Ehi, ragazzi. Cosa c’è?”
“Cosa ti serve per invertire il flusso?” dico.
“Ma cosa…?”
“Hai capito, Senbee,” dice l’Omonero. “Vogliamo darti una mano.”
Si siede sul letto. “Mi dispiace,” dice. “È stato bello restare con voi. Ma mi manca la mia casa, mi manca Arale. Mi manca la signorina Midori.”
“Anche per noi è stato bello. Ma ora spara: cosa ti serve?”
“Mi aiutate davvero?” dice a tutti denti.

“Allora: tegamino?” dice Senbee.
“C’è!”
“Due sveglie rotte?”
“Anche!”
“Playstation?”
Una fitta al cuore mentre dico: “Sì”
“Quattro CD di musica punk?”
“Eccoli,” dice l’Omonero con un sorrisetto tirato.
“Gli vogliamo bene, eh?” dico.
“Già.”

Quattro ore dopo.
La luna piena splende. Gli occhi di Senbee di più.
“Grazie, ragazzi,” dice soffiandosi il naso in un fazzoletto a pois.
“Grazie a te.”
Lo abbraccio forte, un nodo mi chiude la gola. Anche l’Omonero è commosso. Si stringono la mano, mantengono un contegno, da veri duri.
“Pronti? Via!” dice Senbee premendo un tasto del telecomando.
Sullo schermo compare un vortice tremulo. Il Dottor Slump saluta con la mano, oltrepassa il bordo, ci regala un ultimo sorriso e, roteando, sparisce.
Io e l’Omonero ci scambiamo uno sguardo. Come sempre, le parole non servono. Lui mi allunga una mano, io la stringo. E insieme saltiamo nel vortice.

Ciriciao gente!


lunedì 29 ottobre 2012

FORESTO




Ho gli occhi incollati. Mi stropiccio la faccia ruvida e che palle: mi tocca farmi la barba. Oggi è giorno d’ispezione. Che per passare uno straccio fetente sul pavimento di una stazione pare ci sia bisogno di sembrare damerini. Ma io sto zitto, mi faccio gli affari miei. Sarò lustro come un bambino il primo giorno di scuola: basta che mi lascino in pace.
Guarda, Ispettore: mi faccio la doccia, mi striglio, mi sbarbo e mi pettino questi quattro peli così, all’indietro, come un attore del cinema. Non sono neanche male, una volta ripulito. Non fosse per 'sto naso.
Al diavolo, è tardi. Devo andare.
È buio pesto, maledetto sia l’inverno infinito. La mano che regge il sacchetto con la divisa è gelida e spaccata sulle nocche; la pelle secca sanguina e brucia, e brucia la faccia appena rasata contro la lana del cappotto.
Sbatto forte i piedi mentre aspetto l’autobus e una fighetta in tiro mi lancia un’occhiata sbilenca. Sbatto i piedi più forte di prima, lei si volta e si allontana qualche passo. Brava, levati di torno.
Occupo l’ultimo posto libero sul bus, piazzo il sacchetto tra le gambe, mi accomodo, sospiro e il tizio che mi sta di fronte indietreggia. Non mi sono lavato i denti. Devo ricordarmi di non fiatare durante l’ispezione.
Il dondolio è soporifero, ma se mi addormento perdo la fermata e magari, pure, mi spettino. La lotta contro il sonno è crudele,  fa male al cuore, così mi alzo: non manca poi molto.
All’orizzonte, una striscia chiara denuncia il giorno. L’ennesimo giorno di merda.
Percorro spedito il viale alberato; in fondo, tra gli ippocastani nudi, mi aspetta la stazione: austera, imponente e lucida d’umido. Salgo la scalinata evitando i viaggiatori frenetici, attraverso l’atrio, caracollo davanti alle vetrine dei negozi spenna-allocchi, supero i cessi e sguscio nello spogliatoio.
Di spalle alla porta, mi sono appena infilato la divisa e sto bestemmiando perché la tintoria mi ha fatto saltare un bottone, quando un coppino mi spedisce col muso contro lo sportello dell’armadietto. So che è il Corto ancor prima di alzare la testa.
“Ti sei fatto bello, eh? Leccaculo!”
Stringo i denti e un sapore di ferro mi riempie la bocca.
“Vuoi far contento l’ispettore, vero ruffiano?”
E mi molla uno scappellotto da sotto in su,  lui, che è più basso di me di una testa.
“Non voglio guai,” gli dico. “Lasciami in pace.”
Mi spinge contro il muro, temo un cazzotto in testa, ma qualcuno bussa ed entra: l’Ispettore. Ci ricomponiamo in un istante, io mi liscio la divisa e comincio a pregare che  non si accorga del bottone.
“Le manca un bottone,” sibila viscido. Vestito di nero da capo a piedi, la bocca che è un taglio nella faccia da morto, sembra un vampiro.
“Mi dispiace, signor Ispettore, sono mortificato; ma la tintoria…”
“Non mi interessano gli affari suoi,” dice schifato, neanche gli stessi raccontando dei miei funghi; poi mi rendo conto di avergli alitato in faccia.
"Apra l'armadietto," dice.
I miei vestiti sono piegati, i calzini infilati nelle scarpe appaiate. Mi liscio i capelli mentre lui estrae il taccuino nero.
"Un richiamo per quel bottone. È il secondo in un mese," dice allungando la esse.
Annuisco fissandomi i piedi. Ingoio un grumo di vergogna e paura e aspetto il seguito. Che non arriva.
L'Ispettore passa oltre e si sposta davanti al Corto. Non è più così spavaldo ora che ha davanti Nosferatu e, ci scommetto, rimpiange di non aver messo più cura nello sbarbarsi, stamattina: un'isola di peli sul mento violaceo attira l'attenzione dell'Ispettore che scuote la testa inorridito. La divisa ha tutti i bottoni, ma è sgualcita e macchiata e nell'armadietto sembra sia passato un tornado. Il deodorante alla lavanda si mischia al tanfo di formaggio; l'Ispettore, rapido, richiude. La foto di una zoccola bionda si stacca dall'anta e svolazza nello stanzino.
L'Ispettore annota, muto.
Il Corto sposta il peso da una gamba all'altra e accarezza col pollice lo spigolo metallico dell'armadietto. Un sorriso beota vorrebbe forse ingraziarsi Nosferatu.
L'Ispettore fa il giro dello spogliatoio in tre passi, ficca il naso affilato nei cassetti, esplora il bagno e l'armadio delle scope. Scrive.
Apre il borsello di pelle, mette via il taccuino, si spolvera disgustato una manica, aggiusta il foulard e apre la porta. Sulla soglia, rivolto a me, dice: "Vada immediatamente in sartoria e si faccia cucire quel bottone. Non l'ha perso, vero?"
L'ha perso quella cazzona della lavandara, mica io. Il bottone dorato con il logo della stazione.
"Nossignore, non l'ho perso," mento.
"Meglio per lei."
Guardando il Corto dall'alto, aggiunge: "Il terzo richiamo in un mese. Vada pure a casa: la lettera di licenziamento le arriverà in giornata dall'amministrazione."
Chiude la porta e la conversazione. Il moto d'aria sposta il ciuffo dalla faccia attonita del Corto. Occhi sbarrati, sembra un coniglio selvatico paralizzato dai fari, finché lo sconcerto diventa collera e gli occhi, prima tondi, diventano due fessure, mentre la bocca si chiude e si piega in una smorfia feroce.
Mi appiattisco sulla porta dell'armadietto. Ora se la prende con me, sta' a vedere. Ma no. Si strappa la divisa con un grugnito, ci sputa sopra che è ancora in mutande, la prende a calci, prende a calci il muro, l'armadietto. L'anta vomita fuori i suoi vestiti sudici, le scarpe rotolano a terra. Si riveste masticando parole di rabbia, infila la porta e sparisce alla mia vista.
Mi accascio a terra, sgonfio per lo scampato pericolo. Resto così trenta secondi, occhi chiusi e testa appoggiata al muro, a riprendere fiato. Mi scuoto, tiro fuori il coltellino dalla tasca dei pantaloni e, uno a uno, stacco i bottoni dalla divisa strappata del Corto. A lui non servono più e io mi salvo le chiappe. Butto la divisa nell'immondizia. Se qualcuno mi chiede, dico: "È stato lui."

Capelli raccolti in una crocchia, tailleur color fango e decoltè corallo. Sembra che il buon gusto abiti altrove, ma la realtà è che quello non è il suo stile: è il capo che la vuole così. Il capo, che pretende tutto pronto per ieri, così le giornate non hanno fine e le domeniche le passa in ufficio, mentre lui, il capo, se la spassa in barca. E guai a chiedere due soldi in più. Ogni mattina, alla stazione, la tentazione di salire su un treno per il sud è forte. Andare via, mollare tutto. Troverà mai il coraggio?

Appoggio scopa e carrello al muro e busso. Aspetto. Forse ho bussato piano. Busso, stavolta più energico.
"Avanti!" gracchia una voce.
La Vecchia ci sta dando dentro con la macchina da cucire: pedala, pedala, rototom. Ci credo che non sentiva i colpi alla porta. Mi fissa da sopra gli occhialetti a mezzaluna e chiede: "Cosa vuoi?"
"Signora, ha tempo per ricucirmi un bottone?"
"No che non ce l'ho. Non vedi?" dice, indicando una pila alta fino al soffitto di giacche scucite e braghe senza orli.
"Dovrò portarmi il lavoro a casa. Anche oggi."
Rototom rototom.
"Se mi presta un ago faccio da solo," dico io. Che se incontro l'Ispettore faccio la fine del Corto. E poi come lo pago l'affitto della topaia.
"Nel cesto, là sul davanzale," grida la Vecchia.
Seduto su uno sgabello di legno, cucio il bottone alla bell'e meglio. Saluto la Vecchia, riprendo il carrello e mi incammino.

Bello e sorridente, gira con la più gnocca della scuola. Due sfigati gli passano accanto veloci.
"Calma, calma. Dove correte?"
I due si scambiano un'occhiata nervosa.
"Voi li avete fatti i compiti, vero?"
Il più basso avvampa.
"Certo che è vero. Che altro avete da fare, voi due?" dice ghignando. Anche la gnocca ride.
"Forza. Non ho voglia si sporcarmi le mani sulle vostre facce pustolose."
Paonazzi, aprono gli zaini e gli allungano i quaderni.
"Che bravi. Quando ho finito di copiare ve li riporto. Se me lo ricordo."
La gnocca gli porta i quaderni e lo abbraccia; se ne vanno, seguiti dagli sguardi invidiosi di tutti.
"Lo sai, vero, che non li riavremo mai?" dice quello basso.
"Certo che lo so. E ora?"
"E ora ci becchiamo un'insufficienza. Chi glielo spiega a mia madre?"
Quello alto, pensieroso, tira gli elastici dell'apparecchio per i denti.
"Andiamocene," dice.
"E dove?"
"Via di qui, chi se ne frega. Andiamo in stazione e prendiamo un treno a caso."
“E mia madre?”
“Penso io alla giustificazione: sono bravo con le firme.”

La sala d'attesa a quest'ora è mezza vuota.
Raccolgo biglietti usati, cartacce, polvere e fango secco. Se la gente guardasse dove mette i piedi...
Pulisco tutto e sento nella testa la voce dell'Ispettore: "Voglio i pavimenti a specchio, ci si deve poter mangiare. Il decoro della Stazione dev'essere il vostro obiettivo, la vostra missione." Tutte quelle esse. Unghie sulla lavagna.
Pulisco sapendo che tra un'ora sarà tutto come prima. Pulisco sapendo che dovrò rifare tutto ancora e ancora. Scopo con stizza, sollevo una nube di polvere e investo un Foresto seduto da solo in un angolo. Lui non protesta, io proseguo senza chiedere scusa.

"Le sue analisi sono preoccupanti," aveva detto la dottoressa al ciccione sudato. E l'aveva messo a dieta ferrea: niente dolci, niente grassi, niente alcol. È un mese che il ciccione non riesce a dormire: pensa al cibo, ascolta lo stomaco che brontola, tenta il sonno con la tv, ma la pubblicità è una tortura di intingoli. Allora esce, cammina per la città fredda, allunga il passo e serra la mascella davanti ai bar. È mattina, ce l'ha quasi fatta. Ma il profumo di fritto del bar della stazione è inebriante.

Prendo uno straccio dal carrello e levo le ditate dalle maniglie e dai vetri della sala. Il Foresto mi osserva impaziente, forse spera che me ne vada. Bello mio, sapessi quanto vorrei accontentarti. Con la coda dell'occhio, lo vedo afferrare lo zaino da sotto la sedia, appoggiarlo sulle ginocchia, aprirlo e prendere un contenitore di plastica azzurro e una forchetta. Quando toglie il coperchio, una zaffata pestilenziale mi investe e satura l'aria già viziata della sala d'attesa. Mi lacrimano gli occhi e mi copro naso e bocca con la manica mentre guardo il Foresto avido infilarsi in bocca un coagulo di roba verde. Cristo, che schifo. Hai vinto Foresto, levo le tende. Torno dopo a finire qui dentro.
Raccatto straccio e scopa e vado verso l’uscita. Il Foresto sorride con gli occhi, si lecca le labbra verdi, fa un cenno di saluto con la testa. Rabbrividisco e non ricambio, in fuga da quel fetore.

La cravatta e lo schifo gli stringono la gola. Corre nell'atrio, verso la biglietteria. Per inseguire i brutti pensieri, perde il treno.
"Maledetta troia. Troia e imbecille: lo sai che la faccio io la lavatrice, no? Se proprio devi scoparti quel porco del tuo capo, puoi almeno togliere i suoi bigliettini osceni dalle tasche? Imbecille io, che t'ho sposata. Ma vedrai che sorpresa, stasera, quando la chiave non aprirà la porta."

Appena fuori dalla sala d'attesa, qualcuno mi scontra: il Corto. "Sei ancora qui," gli dico. I suoi bottoni mi bruciano in tasca.
"Sì, sono ancora qui," dice lui, aromatizzato alcolico.
"Sei ubriaco."
"Sono ubriaco, sì, sono ubriaco, allora?" sbraita aggressivo. Ma perché non sto zitto?
"Scusa," biascico.
Qualcosa lo distrae e mi salva, per la seconda volta. Oggi non gioco alla lotteria, la mia dose di culo me la sono spesa.
"Cos'è 'sto tanfo? Te la sei fatta sotto?"
"La colazione di quello lì," dico indicando col mento il Foresto. Il Corto entra nella sala come una furia. Ho già capito come va a finire, mi porto fuori tiro. Trascino piedi e carrello lontano, zigzagando tra la gente. Ho lasciato i guanti in sala d'attesa, porco demonio. Mi volto e vedo Il Corto inveire contro il Foresto. Non sento quello che dice, sembra un pesce chiatto in un acquario squallido. Il Foresto, rannicchiato sulla sedia, sta chiudendo in fretta il contenitore del suo cibo immondo. Il gesto non placa il  Corto.
La gente rallenta.
Una donna grassa porta via il marito di peso.
La Vecchia, in pausa dal suo rototom, cammina e mastica un dolce con le gengive; nota il trambusto, si ferma. Ha un’aria sadica e goduta.
Due ragazzotti, zaini in spalla e facce da pirla, si piazzano davanti allo spettacolo del Corto che spintona il Foresto. Ridono.
Altri si aggiungono, qualcuno finge di non vedere.
Ramazzando, ostento indifferenza e mi avvicino di qualche passo.
Il Foresto raccoglie le sue carabattole, si fa piccolo piccolo e, carponi, tenta di uscire dalla sala d’attesa. Il Corto è troppo ubriaco e troppo incazzato per lasciarlo andare: lo agguanta per il collo della camicia, come farebbe con un gatto rognoso, e lo butta fuori, nell’atrio.
Una donna si sposta di lato, inorridita, e lascia che rotoli sul pavimento, di fianco alle sue scarpe corallo.
“Ti ho fatto una domanda,” gli sta gridando il Corto. “Capisci la mia lingua?”
Il Foresto è tutto occhi. Trema.
“Ti comporti così a casa tua? Smerdi in giro?”
Sono a mezzo metro dal gruppo, seminascosto da un pilastro; ramazzo, taccio, sbircio tra le ciglia; un tale incravattato chiede: “Cos’ha fatto?” e sento la donna rispondere: “Ha usato la sala d’attesa come gabinetto.”
“Cosa? Ha cagato là dentro?”
“Sì, sulla poltrona," risponde il ragazzotto basso. "E quel tizio è stato licenziato per colpa sua.”
“Figlio di…”
“Sì, figlio di puttana!” grida un ciccione sudato. “Torna da dove sei venuto, schifoso!”
La folla cresce. La rabbia pure. Tutti sono certi che il Foresto l’abbia fatta in sala d’attesa. E che il Corto sia stato licenziato perché l’Ispettore ha trovato la torta fumante sulla poltrona.
Il Foresto è circondato, stringe lo zaino tra le braccia, ha la testa incassata nelle spalle. Aspetta le botte, sa che arriveranno. Non emette un suono mentre lo spazio intorno a lui si riduce. Il ragazzotto basso fa per sferrargli un calcio, ma, imbranato come nessuno, calibra male, perde l’equilibrio e cade. L’altro viene avanti e grida: “Avete visto? Gli ha fatto lo sgambetto, ha fatto cadere il mio amico!”
Gli tira un calcio in un fianco ed è come un gong: il tale incravattato immobilizza il Foresto da dietro, i ragazzotti e il ciccione lo riempiono di calci e pugni e sberle, perché ha cagato a casa nostra, perché ha fatto licenziare uno di noi, perché ha picchiato il mio amico, perché mia moglie si scopa il suo capo, perché la mia faccia è un campo di pustole, perché ho una fame che mangerei Dio. Perché.
Esauriti i perché, la folla si spegne, si disperde, ognuno va per la sua strada. La Vecchia sputa sul corpo del Foresto, tutto bubboni e lividi e sangue. Il Foresto non si muove. Stringe ancora lo zaino.
Piano, lento, assicurandomi che nessuno mi veda, vengo fuori da dietro la colonna e mi avvicino. Una bolla di sangue da una narice si gonfia e scoppia: il Foresto respira. Chiamo l’ambulanza, ma quando chiedono il mio nome, attacco. Mi faccio i fatti miei, io. Non voglio guai. Prima di sparire anch’io, leggo sullo zaino il nome del Foresto.

Un grave episodio di razzismo si è verificato ieri mattina alla Stazione Centrale. Lo straniero, Roberto Parodi, è all'ospedale con una prognosi di dieci giorni. Aveva lasciato l'Italia e la sua città, Genova, solo una settimana fa, in cerca di un lavoro. Gli aggressori non sono ancora stati individuati.


mercoledì 24 ottobre 2012

Pellegrinaggio pagano


London.
Monday, October 22nd, 2012.

"Trovato?"
"Sì. Southmere Lake, a sud est. Dobbiamo prendere un autobus, un treno, un autobus e fare un pezzo a piedi."
"Un viaggio. Saremo senza connessione, prendiamo appunti."
"Già fatto," dice l'Omonero sventolando un foglietto.
Va’ che squadra!

Un tappo di nebbia inghiotte la cima dei grattacieli e la pioggia spray fa brillare le ciglia.
A Londra l'autunno fa sul serio e i rossi e i gialli spiccano sul grigio ovatta del cielo e del marciapiede. 


Quasi non parliamo per tutto il tragitto, rapiti dal paesaggio Silent Hill.

Scendiamo dall'ultimo autobus e laggiù, sullo sfondo d’acciaio, ci attendono i Quattro Monoliti.
Sono emozionata e un po' babbea.
Mi assolvo: ognuno si emoziona come gli pare.



Attraversiamo un prato.
"Dici che è qui che seppellivano i cadaveri?" dice l'Omonero.
"E chi lo sa?" dico io, spallucce.
Di lì a poco, incontriamo il primo cartello:


I volatili non mancano: cigni; anatre; oche; gabbiani; cormorani.
Ma squallore, monnezza e fumi densi fanno del Santuario un paesaggio post-atomico. Decadente. Affascinante.


Avanti, e secondo cartello:


"È uno scherzo," dico.
"Mi sa di no. Guarda laggiù."


Cavalli. Ovunque. Cavalli nei recinti, cavalli legati con funi e catene, cavalli liberi di andare dove gli pare: nei prati, per le strade, cloppetecloppete tra le panchine e gli scivoli dei marmocchi. Ci vedono, si avvicinano, ci spingono sperando di ottenere uno zuccherino. L'Omonero è perplesso, io, incosciente e mocciosa, squittisco.
Eravamo preparati a scoiattoli e volpi, ma i cavalli allo stato brado ci spiazzano sul serio.


"Non ce l'ho lo zuccherino," provo a dire, ma i bestioni, zampe pelose e ciuffi Emo, sono insistenti.
"Non siamo qui per questo", dice l'Omonero con una nota inquieta nella voce.
"Sì, ma quando mi ricapita? Uff. Va bene, andiamo."


Pochi passi e terzo cartello:


Quel Risk of Death echeggia sinistro. Ma non è inverno e il lago è liquido.
Tiriamo dritto tra gli alberi, i passi che sciaguattano nel fango.
Una grossa croce segna il punto d'arrivo del pellegrinaggio. Cento gabbiani prendono il volo e l'Omonero si accartoccia per paura che gli caghino in testa.



Ma eccoci. Oh cazzo, eccoci. 


Ci guardiamo intorno con un sorrisetto pirla, sentendoci parte di chissà che.
"Entriamo?"
"Mmh," annuisco.
Religiosamente, zitti zitti, varchiamo la soglia.
Pochi passi su una moquette color can che fugge ed eccola lì.
Finalmente, eccola.

LA RELIQUIA!


Ci fermiamo un minuto a contemplare commossi.
E ordiniamo uova fritte e pancetta.