Tanto tempo fa vivevo in un appartamento spettinato
e splendido in piazza Matteotti: ultimo piano e terrazzo con vista sulla città. Cinque camere da letto e sei femmine.
C'era Santalalla, occhi obliqui e trasparenti, bella come una Madonna, che
preparava i ravioli per tutte e raccoglieva le nostre lacrime. Angelo e demone,
farla incazzare non era una buona idea.
C'era La Puddu, una Audrey Hepburn in versione sexy. Difficile
da immaginare? Perché non la conoscete. E non l'avete mai vista preparare i
ripieni alla ligure coi capelli nerissimi raccolti in uno chignon disordinato. Quei riccioli sul collo...
C'era La So', gambe lunghe e un culo che faceva gridare
al miracolo. Vederla ballare era una gioia per gli occhi.
C'era La Alle, zazzera punk e occhi da cerbiatto, che
girava sempre con la valigia e non sapevi mai se partiva o arrivava.
C'ero io, La Bale, sfacciata e impudica, sempre in
mutande per la gioia del vicino giudice.
E c'era Nina, la gatta. Nera, gli occhi arancioni, era la
vera regina del focolare.
Un giorno torno a casa e sul terrazzo trovo Santalalla,
La Puddu e una montagna di gessetti colorati.
"Ciao Bale! Ci aiuti?"
"A fare che?"
"Abbiamo deciso che questa casa diventerà un Bed and
Breakfast per gli alieni. Dobbiamo disegnare l'insegna e la pista di
atterraggio per gli UFI."
"Fico."
C'era l'insegna, c'era la pista, ma nessun UFO è mai
atterrato sul nostro terrazzo. Quando la pioggia ha cancellato tutto, abbiamo
usato i gessetti avanzati per scrivere SUCA agli elicotteri degli sbirri.
Premessa (a scanso di equivoci): il testo seguente è ironico.
Il forum di cui parlo è eccezionale e i SuperSubbi sono i miei adorati guru.
Quando ho iniziato la carriera subacquea, un anno e
mezzo fa, eccitata e curiosa di scoprire un mondo, mi sono iscritta a un forum
pieno zeppo di SuperSubbi. Poiché ritengo che l'unica domanda idiota sia quella
non fatta, ho iniziato a tartassare:
come si fa a capire se un diving è serio?
perché a me la bombola dura sette minuti e agli
altri un'ora?
perché mi galleggia il culo?
Mi è stato gentilmente consigliato, nell'ordine:
di darmi all'ippica;
di fare immersioni nella vasca da bagno;
di comprarmi una paperella.
C'era perfino uno che voleva triturarmi nelle
eliche di un aeroplano.
Graziealla
mia sfacciataggine, che farebbe cagare sotto un ariete (cit.), non mi sono
arresa.
E ho continuato a chiedere:
Come scelgo la muta?
Le mute vanno tutte bene. Vai e compra quella che
ti sta meglio.
Segue una lite incomprensibile tra SuperSubbi su
neoprene e trilaminato, ma io, con la mia risposta, vado al negozio, provo un
po' di mute e scelgo quella che si adatta meglio alle mie curve. Che, incidentalmente,
è rosa. Io odio il rosa, ma le altre mute mi facevano difetto ovunque - spalle
strette, vita larga, manica corta - e così dico va be'.
E le pinne? Come scelgo le pinne?
Le pinne vanno tutte bene. Vai e compra quelle che
ti calzano meglio.
Segue una lite incomprensibile tra SuperSubbi sulla
pinneggiata a rana, ma io, con la mia risposta, vado al negozio e provo un po'
di pinne. Tra quelle che mi calzano meglio, ce n'è un paio rosa. Così mi dico:
se rosa dev'essere, che rosa sia. A terra scarrafone, in acqua
flabellina.
Ho deciso di comprarmi il gav. Mi date una mano?
I gav vanno tutti bene. Vai e compra quello che ti
piace di più.
Segue lite incomprensibile tra SuperSubbi sulla
postura da tenere in acqua, ma io, con la mia risposta, vado al negozio (che stappa una
bottiglia ogni volta che mi vede) e mi provo tutti i gav. Mi paiono in effetti
tutti uguali. Così lo scelgo. Rosa.
Si avvicina il mio quarantesimo.
Nella letterina a
Babbo Compleanno vorrei scrivere che mi serve il computer. Ma quale?
I computer vanno tutti bene. Compra quello che ti
piace di più.
Segue lite incomprensibile tra SuperSubbi sulle
mele rosse e verdi, ma io, con la mia risposta, scelgo dal catalogo un computer
rosa.
Sul gommone con mille SuperSubbi, ostento fiera la
mia attrezzatura scintillante. Uno scarrafone mi squadra e dice:
"Eccola lì, un'altra che sceglie
l'attrezzatura in base al colore!"
Giornata
massacrante. Sogno divano, coperta, gatti e playstation.
Arranco
per i sei piani di scale e, mentre apro la porta di casa, sento delle voci.
“L’Omonero avrà di nuovo lasciato il televisore acceso,” penso. Ma quasi muoio
d’infarto quando mi trovo in soggiorno un capoccione: la stessa corporatura
della mia lavatrice, camice bianco e pantofole, le mani appoggiate sul mio
nuovo televisore al plasma; sudato, disperato, grida: “Togli quella cacca dal
letto! Mi senti? Ti ho detto mille volte che non devi portare la cacca a casa!”
“Senbee?”
dico, mentre la borsa mi cade per terra. Lui non sembra avermi sentito.
Idea: tolgo il cappotto, mi avvicino, sollevo la gonna, lo
chiamo: “Dottor Slump?”
Il
sesto senso del porcello lo fa voltare: faccia a faccia con le mie mutandine,
gli occhi schizzano dalle orbite e uno spruzzo di sangue dalla narice
sinistra allaga il pavimento. Appena abbasso l’orlo della gonna, però, lui
ricomincia a prendere a pugni il televisore. Afferro il telecomando, spengo e
Senbee si immobilizza davanti al nulla. Tocca lo schermo, ci gira intorno.
“Hai
una cassetta degli attrezzi?” dice.
“Per
farci cosa?”
“Devo
invertire il flusso. Voglio tornare a casa prima che quella peste combini
troppi guai!”
“Quanta
fretta, Senbee! Non vuoi neanche sapere dove sei finito?”
“Come sai il mio nome? Ci conosciamo?”
“Tutti
qui ti conoscono. Sei molto famoso!”
Lui
d’improvviso diventa alto e bello e il sorriso gli scintilla. Trattengo la
risata a fatica: mi fa ammazzare quando fa il figo!
“Accomodati,”
gli dico.
“Ehi,
senti, mi dispiace per…” dice, indicando la pozza di sangue.
“Non
preoccuparti, l’avevo messo in conto. Ora pulisco. Non toccare niente, per
favore, finché non torno.”
“Va
bene.”
In
bagno col pretesto dello straccio, telefono all’Omonero.
“Hai
lasciato di nuovo il televisore acceso!”
“Scusa,
B, hai ragione, è che…”
“Non
hai capito, non ti stavo rimproverando! È successa una cosa assurda: il Dottor
Slump è nel nostro soggiorno!”
L’Omonero
tace qualche secondo. Poi: “B, hai bevuto?”
“No,
macché! È di là, te lo giuro, dev’essere passato dalla tele in qualche modo!”
“Veramente?
Fagli costruire la Pistola Transformer!”
“Così
trasformo la vicina in uno scarafaggio! Però voglio anche la Pentola
Concretizzante, che ci butto una ricetta e in quattro e quattr’otto la cena è
pronta!”
“E
io voglio gli occhiali a raggi x!”
“Quelli
te li scordi.”
“Uffa.”
“Comunque,
non sarà facile convincerlo a restare: stava già cercando il modo di smontare
il televisore per tornare a Villaggio Pinguino.”
“Il
televisore nuovo? Fermalo, fermalo, per carità!”
“Ci
provo. Ora torno di là, che devo anche pulire un mare di sangue.”
“B!
Gli hai fatto vedere le mutande!”
“Non
avevo altra scelta: non mi dava retta!”
“Bella
scusa! Poi dici a me.”
“Eddai.
Torna presto.”
“Appena
finito di lavorare.”
Armata
di straccio e secchio, torno in soggiorno. Senbee è sparito.
“Ma
dove caz…”
Un
rumore viene dalla cucina.
“Che
stai facendo?” dico.
“Il
tuo tostapane è rotto. Te lo sto riparando.”
“Ma
non mi sembrava…” Il campanello mi interrompe. Oddio, e chi è ora? Butto lo
straccio a coprire la macchia di sangue e apro la porta: è la vicina napoletana
spaccapalle.
“Buonasera,
signuri’. Scusate, ma ho sentito dei rumori e mi sono un poco preoccupata.”
“Scusi,
signora, è venuto a trovarmi un vecchio amico. Mi spiace averla disturbata.”
Non
mi accorgo del testone di Senbee che sbuca dalla cucina. La vicina sgrana gli
occhi.
“Signorina,
ma voi tenete nu’ cartone animato in casa? Ma l’amministratore lo sa?”
“Non
ancora, signora, lo avviso prima possibile.”
Lei
allunga il collo.
“Ma
non sarà pericoloso?”
“Pericoloso?
E perché mai!”
Un
tostapane con le scarpe da tennis inizia
a correre per il soggiorno sputando fette abbrustolite a puntino, inciampa nello straccio e scopre la pozza di sangue. La vicina fugge urlando: “Domani lo
chiamo io l’amministratore! Voi siete una strega! Un’assassina!”
“Senbee,
ma che hai combinato?”
“A
che serve un tostapane che non ti porta la colazione a letto?”
“A
tostare il pane?”
Mi
guarda sconcertato.
“Vieni,
siediti un po’ qui: ti faccio vedere una cosa.”
Impallidisce.
“Non
QUELLA!”
Si
siede sul divano, buono buono, le mani in grembo, e fissa malinconico lo
schermo nero del televisore. Dalla libreria prendo tutti i numeri de “Il Dottor
Slump e Arale” e li appoggio in ordine sparso sul tavolino.
“Che
ti dicevo? Sei famoso qui!”
Senbee
inizia a sfogliare il numero tre, l’episodio Mutandine e Fragoline. “Tutta
colpa di quello stupido maiale. Quella volta ce l’avevo quasi fatta!”
“Il
piano era perfetto, Senbee, non è stata colpa tua. Non sei stufo di fallire, lì
a Villaggio Pinguino? Non ti piacerebbe cambiare vita?”
“Io…
Beh, ecco…”
“Qui
è pieno di belle ragazze. Sei famoso, sei affascinante.”
“E
bello.”
“Soprattutto
bello. Potresti fermarti un po’ da noi e vedere come va. Puoi tornare a casa
quando vuoi, se non ti piace.”
“E
cosa farà Arale senza di me? E Gacchan? E la Professoressa Yamabuki?”
Mentre
lui si perde nei pensieri, gioco la carta vincente: accendo il televisore su un
canale hard.
“Beh?
Dov’è?”
“Shht,
zitto! È appena andato a dormire!”
“L’hai
convinto a restare?”
“A
fare una prova.”
“E
come hai fatto?”
“Donnine.”
“B,
hai comprato la Cocacola?”
“Sì,
è in dispensa. Agitala bene prima di versarla nel serbatoio. Ma dove vai con
l’aereo?”
“A
prendere Senbee. Con questo traffico se vado in macchina non arrivo più.”
“Cosa
volete per cena?”
“Ho
comprato un ricettario nuovo: lancia nella pentola la pagina trentasette.”
“Cosa
c’è Senbee? Non ti piacciono le lasagne?” dico.
“Sono
buonissime. È che oggi al laboratorio mi sono stancato. Vado a riposare, se non
vi dispiace.”
“Certo,
vai. Buonanotte.”
Slump
si chiude in camera sua e l’Omonero scuote la testa.
“B,
Senbee non è contento.”
“Magari
è davvero stanco.”
“Lo
sai cosa fa quando si chiude in camera?”
“No
e, conoscendolo, non so se voglio saperlo.”
“Legge
i suoi fumetti. L’ho sentito ridere. E piangere, a volte.”
“Oh
no. Cosa possiamo fare?”
“Lo
sai.”
Certo
che lo so.
Ci
alziamo da tavola, bussiamo alla porta della sua stanza. Apre spettinato, con
gli occhi rossi. “Ehi, ragazzi. Cosa c’è?”
“Cosa
ti serve per invertire il flusso?” dico.
“Ma
cosa…?”
“Hai
capito, Senbee,” dice l’Omonero. “Vogliamo darti una mano.”
Si
siede sul letto. “Mi dispiace,” dice. “È stato bello restare con voi. Ma mi
manca la mia casa, mi manca Arale. Mi manca la signorina Midori.”
“Anche
per noi è stato bello. Ma ora spara: cosa ti serve?”
“Mi
aiutate davvero?” dice a tutti denti.
“Allora:
tegamino?” dice Senbee.
“C’è!”
“Due
sveglie rotte?”
“Anche!”
“Playstation?”
Una
fitta al cuore mentre dico: “Sì”
“Quattro
CD di musica punk?”
“Eccoli,”
dice l’Omonero con un sorrisetto tirato.
“Gli
vogliamo bene, eh?” dico.
“Già.”
Quattro
ore dopo.
La
luna piena splende. Gli occhi di Senbee di più.
“Grazie,
ragazzi,” dice soffiandosi il naso in un fazzoletto a pois.
“Grazie
a te.”
Lo
abbraccio forte, un nodo mi chiude la gola. Anche l’Omonero è commosso. Si
stringono la mano, mantengono un contegno, da veri duri.
“Pronti?
Via!” dice Senbee premendo un tasto del telecomando.
Sullo
schermo compare un vortice tremulo. Il Dottor Slump saluta con la mano,
oltrepassa il bordo, ci regala un ultimo sorriso e, roteando, sparisce.
Io
e l’Omonero ci scambiamo uno sguardo. Come sempre, le parole non servono. Lui
mi allunga una mano, io la stringo. E insieme saltiamo nel vortice.
Ho
gli occhi incollati. Mi stropiccio la faccia ruvida e che palle: mi tocca farmi
la barba. Oggi è giorno d’ispezione. Che per passare uno straccio fetente sul
pavimento di una stazione pare ci sia bisogno di sembrare damerini. Ma io sto
zitto, mi faccio gli affari miei. Sarò lustro come un bambino il primo giorno
di scuola: basta che mi lascino in pace.
Guarda,
Ispettore: mi faccio la doccia, mi striglio, mi sbarbo e mi pettino questi
quattro peli così, all’indietro, come un attore del cinema. Non sono neanche male, una volta ripulito. Non fosse per 'sto naso.
Al
diavolo, è tardi. Devo andare.
È
buio pesto, maledetto sia l’inverno infinito. La mano che regge il sacchetto
con la divisa è gelida e spaccata sulle nocche; la pelle secca sanguina e
brucia, e brucia la faccia appena rasata contro la lana del cappotto.
Sbatto
forte i piedi mentre aspetto l’autobus e una fighetta in tiro mi lancia
un’occhiata sbilenca. Sbatto i piedi più forte di prima, lei si volta e si allontana qualche passo. Brava, levati di torno.
Occupo
l’ultimo posto libero sul bus, piazzo il sacchetto tra le gambe, mi accomodo,
sospiro e il tizio che mi sta di fronte indietreggia. Non mi sono lavato i
denti. Devo ricordarmi di non fiatare durante l’ispezione.
Il
dondolio è soporifero, ma se mi addormento perdo la fermata e magari, pure, mi
spettino. La lotta contro il sonno è crudele,fa male al cuore, così mi alzo: non manca poi molto.
All’orizzonte,
una striscia chiara denuncia il giorno. L’ennesimo giorno di merda.
Percorro
spedito il viale alberato; in fondo, tra gli ippocastani nudi, mi aspetta la
stazione: austera, imponente e lucida d’umido. Salgo la scalinata evitando i
viaggiatori frenetici, attraverso l’atrio, caracollo davanti alle vetrine dei
negozi spenna-allocchi, supero i cessi e sguscio nello spogliatoio.
Di
spalle alla porta, mi sono appena infilato la divisa e sto bestemmiando perché
la tintoria mi ha fatto saltare un bottone, quando un coppino mi spedisce col
muso contro lo sportello dell’armadietto. So che è il Corto ancor prima di
alzare la testa.
“Ti
sei fatto bello,
eh? Leccaculo!”
Stringo
i denti e un sapore di ferro mi riempie la bocca.
“Vuoi
far contento l’ispettore, vero ruffiano?”
E
mi molla uno scappellotto da sotto in su,lui, che è più basso di me di una testa.
“Non
voglio guai,” gli dico. “Lasciami in pace.”
Mi
spinge contro il muro, temo un cazzotto in testa, ma qualcuno bussa ed entra:
l’Ispettore. Ci ricomponiamo in un istante, io mi liscio la divisa e comincio a
pregare chenon si accorga del bottone.
“Le
manca un bottone,” sibila viscido. Vestito di nero da capo a piedi, la bocca
che è un taglio nella faccia da morto, sembra un vampiro.
“Mi
dispiace, signor Ispettore, sono mortificato; ma la tintoria…”
“Non
mi interessano gli affari suoi,” dice schifato, neanche gli stessi raccontando
dei miei funghi; poi mi rendo conto di avergli alitato in faccia.
"Apra
l'armadietto," dice.
I
miei vestiti sono piegati, i calzini infilati nelle scarpe appaiate. Mi liscio
i capelli mentre lui estrae il taccuino nero.
"Un
richiamo per quel bottone. È il secondo in un mese," dice allungando la
esse.
Annuisco
fissandomi i piedi. Ingoio un grumo di vergogna e paura e aspetto il seguito.
Che non arriva.
L'Ispettore
passa oltre e si sposta davanti al Corto. Non è più così spavaldo ora che ha
davanti Nosferatu e, ci scommetto, rimpiange di non aver messo più cura nello
sbarbarsi, stamattina: un'isola di peli sul mento violaceo attira l'attenzione
dell'Ispettore che scuote la testa inorridito. La divisa ha tutti i bottoni, ma
è sgualcita e macchiata e nell'armadietto sembra sia passato un tornado. Il
deodorante alla lavanda si mischia al tanfo di formaggio; l'Ispettore, rapido,
richiude. La foto di una zoccola bionda si stacca dall'anta e svolazza nello
stanzino.
L'Ispettore
annota, muto.
Il
Corto sposta il peso da una gamba all'altra e accarezza col pollice lo spigolo
metallico dell'armadietto. Un sorriso beota vorrebbe forse ingraziarsi
Nosferatu.
L'Ispettore
fa il giro dello spogliatoio in tre passi, ficca il naso affilato nei cassetti,
esplora il bagno e l'armadio delle scope. Scrive.
Apre
il borsello di pelle, mette via il taccuino, si spolvera disgustato una manica,
aggiusta il foulard e apre la porta. Sulla soglia, rivolto a me, dice:
"Vada immediatamente in sartoria e si faccia cucire quel bottone. Non l'ha
perso, vero?"
L'ha
perso quella cazzona della lavandara, mica io. Il bottone dorato con il logo
della stazione.
"Nossignore,
non l'ho perso," mento.
"Meglio
per lei."
Guardando
il Corto dall'alto, aggiunge: "Il terzo richiamo in un mese. Vada pure a
casa: la lettera di licenziamento le arriverà in giornata
dall'amministrazione."
Chiude
la porta e la conversazione. Il moto d'aria sposta il ciuffo dalla faccia
attonita del Corto. Occhi sbarrati, sembra un coniglio selvatico paralizzato
dai fari, finché lo sconcerto diventa collera e gli occhi, prima tondi,
diventano due fessure, mentre la bocca si chiude e si piega in una smorfia
feroce.
Mi
appiattisco sulla porta dell'armadietto. Ora se la prende con me, sta' a
vedere. Ma no. Si strappa la divisa con un grugnito, ci sputa sopra che è
ancora in mutande, la prende a calci, prende a calci il muro, l'armadietto.
L'anta vomita fuori i suoi vestiti sudici, le scarpe rotolano a terra. Si
riveste masticando parole di rabbia, infila la porta e sparisce alla mia vista.
Mi
accascio a terra, sgonfio per lo scampato pericolo. Resto così trenta secondi,
occhi chiusi e testa appoggiata al muro, a riprendere fiato. Mi scuoto, tiro
fuori il coltellino dalla tasca dei pantaloni e, uno a uno, stacco i bottoni
dalla divisa strappata del Corto. A lui non servono più e io mi salvo le
chiappe. Butto la divisa nell'immondizia. Se qualcuno mi chiede, dico: "È
stato lui."
Capelli
raccolti in una crocchia, tailleur color fango e decoltè corallo. Sembra che il
buon gusto abiti altrove, ma la realtà è che quello non è il suo stile: è il
capo che la vuole così. Il capo, che pretende tutto pronto per ieri, così le
giornate non hanno fine e le domeniche le passa in ufficio, mentre lui, il
capo, se la spassa in barca. E guai a chiedere due soldi in più. Ogni mattina,
alla stazione, la tentazione di salire su un treno per il sud è forte. Andare
via, mollare tutto. Troverà mai il coraggio?
Appoggio
scopa e carrello al muro e busso. Aspetto. Forse ho bussato piano. Busso,
stavolta più energico.
"Avanti!"
gracchia una voce.
La
Vecchia ci sta dando dentro con la macchina da cucire: pedala, pedala, rototom.
Ci credo che non sentiva i colpi alla porta. Mi fissa da sopra gli occhialetti
a mezzaluna e chiede: "Cosa vuoi?"
"Signora,
ha tempo per ricucirmi un bottone?"
"No
che non ce l'ho. Non vedi?" dice, indicando una pila alta fino al soffitto
di giacche scucite e braghe senza orli.
"Dovrò
portarmi il lavoro a casa. Anche oggi."
Rototom
rototom.
"Se
mi presta un ago faccio da solo," dico io. Che se incontro l'Ispettore
faccio la fine del Corto. E poi come lo pago l'affitto della topaia.
"Nel
cesto, là sul davanzale," grida la Vecchia.
Seduto
su uno sgabello di legno, cucio il bottone alla bell'e meglio. Saluto la
Vecchia, riprendo il carrello e mi incammino.
Bello e sorridente, gira con la più gnocca della scuola.
Due sfigati gli passano accanto veloci.
"Calma,
calma. Dove correte?"
I
due si scambiano un'occhiata nervosa.
"Voi
li avete fatti i compiti, vero?"
Il
più basso avvampa.
"Certo
che è vero. Che altro avete da fare, voi due?" dice ghignando. Anche la
gnocca ride.
"Forza.
Non ho voglia si sporcarmi le mani sulle vostre facce pustolose."
Paonazzi,
aprono gli zaini e gli allungano i quaderni.
"Che
bravi. Quando ho finito di copiare ve li riporto. Se me lo ricordo."
La
gnocca gli porta i quaderni e lo abbraccia; se ne vanno, seguiti dagli sguardi
invidiosi di tutti.
"Lo
sai, vero, che non li riavremo mai?" dice quello basso.
"Certo
che lo so. E ora?"
"E
ora ci becchiamo un'insufficienza. Chi glielo spiega a mia madre?"
Quello
alto, pensieroso, tira gli elastici dell'apparecchio per i denti.
"Andiamocene,"
dice.
"E
dove?"
"Via
di qui, chi se ne frega. Andiamo in stazione e prendiamo un treno a caso."
“E
mia madre?”
“Penso
io alla giustificazione: sono bravo con le firme.”
La
sala d'attesa a quest'ora è mezza vuota.
Raccolgo
biglietti usati, cartacce, polvere e fango secco. Se la gente guardasse dove
mette i piedi...
Pulisco
tutto e sento nella testa la voce dell'Ispettore: "Voglio i pavimenti a
specchio, ci si deve poter mangiare. Il decoro della Stazione dev'essere il
vostro obiettivo, la vostra missione." Tutte quelle esse. Unghie sulla
lavagna.
Pulisco
sapendo che tra un'ora sarà tutto come prima. Pulisco sapendo che dovrò rifare
tutto ancora e ancora. Scopo con stizza, sollevo una nube di polvere e investo
un Foresto seduto da solo in un angolo. Lui non protesta, io proseguo senza
chiedere scusa.
"Le
sue analisi sono preoccupanti," aveva detto la dottoressa al ciccione sudato.
E l'aveva messo a dieta ferrea: niente dolci, niente grassi, niente alcol. È un
mese che il ciccione non riesce a dormire: pensa al cibo, ascolta lo stomaco
che brontola, tenta il sonno con la tv, ma la pubblicità è una tortura di
intingoli. Allora esce, cammina per la città fredda, allunga il passo e serra
la mascella davanti ai bar. È mattina, ce l'ha quasi fatta. Ma il profumo di
fritto del
bar della stazione è inebriante.
Prendo
uno straccio dal carrello e levo le ditate dalle maniglie e dai vetri della
sala. Il Foresto mi osserva impaziente, forse spera che me ne vada. Bello mio, sapessi quanto
vorrei accontentarti. Con la coda dell'occhio, lo vedo afferrare lo zaino da
sotto la sedia, appoggiarlo sulle ginocchia, aprirlo e prendere un contenitore
di plastica azzurro e una forchetta. Quando toglie il coperchio, una zaffata
pestilenziale mi investe e satura l'aria già viziata della sala d'attesa. Mi
lacrimano gli occhi e mi copro naso e bocca con la manica mentre guardo il
Foresto avido infilarsi in bocca un coagulo di roba verde. Cristo, che schifo.
Hai vinto Foresto, levo le tende. Torno dopo a finire qui dentro.
Raccatto
straccio e scopa e vado verso l’uscita. Il Foresto sorride con gli occhi, si
lecca le labbra verdi, fa un cenno di saluto con la testa. Rabbrividisco e non
ricambio, in fuga da quel fetore.
La
cravatta e lo schifo gli stringono la gola. Corre nell'atrio, verso la
biglietteria. Per inseguire i brutti pensieri, perde il treno.
"Maledetta
troia. Troia e imbecille: lo sai che la faccio io la lavatrice, no? Se proprio
devi scoparti quel porco del
tuo capo, puoi almeno togliere i suoi bigliettini osceni dalle tasche?
Imbecille io, che t'ho sposata. Ma vedrai che sorpresa, stasera, quando la
chiave non aprirà la porta."
Appena
fuori dalla sala d'attesa, qualcuno mi scontra: il Corto. "Sei ancora
qui," gli dico. I suoi bottoni mi bruciano in tasca.
"Sì,
sono ancora qui," dice lui, aromatizzato alcolico.
"Sei
ubriaco."
"Sono
ubriaco, sì, sono ubriaco, allora?" sbraita aggressivo. Ma perché non sto
zitto?
"Scusa,"
biascico.
Qualcosa
lo distrae e mi salva, per la seconda volta.
Oggi non gioco alla lotteria, la mia dose di culo me la sono spesa.
"Cos'è 'sto tanfo? Te la sei fatta sotto?"
"La
colazione di quello lì," dico indicando col mento il Foresto. Il Corto
entra nella sala come una furia. Ho già capito come va a finire, mi porto fuori
tiro. Trascino piedi e carrello lontano, zigzagando tra la gente. Ho lasciato i
guanti in sala d'attesa, porco demonio. Mi volto e vedo Il Corto inveire contro
il Foresto. Non sento quello che dice, sembra un pesce chiatto in un acquario
squallido. Il Foresto, rannicchiato sulla sedia, sta chiudendo in fretta il
contenitore del
suo cibo immondo. Il gesto non placa ilCorto.
La
gente rallenta.
Una
donna grassa porta via il marito di peso.
La
Vecchia, in pausa dal suo rototom, cammina e mastica un dolce con le gengive;
nota il trambusto, si ferma. Ha un’aria sadica e goduta.
Due
ragazzotti, zaini in spalla e facce da pirla, si piazzano davanti allo
spettacolo del Corto che spintona il Foresto. Ridono.
Altri
si aggiungono, qualcuno finge di non vedere.
Ramazzando,
ostento indifferenza e mi avvicino di qualche passo.
Il
Foresto raccoglie le sue carabattole, si fa piccolo piccolo e, carponi, tenta
di uscire dalla sala d’attesa. Il Corto è troppo ubriaco e troppo incazzato per
lasciarlo andare: lo agguanta per il collo della camicia, come farebbe con un
gatto rognoso, e lo butta fuori, nell’atrio.
Una
donna si sposta di lato, inorridita, e lascia che rotoli sul pavimento, di
fianco alle sue scarpe corallo.
“Ti
ho fatto una domanda,” gli sta gridando il Corto. “Capisci la mia lingua?”
Il
Foresto è tutto occhi. Trema.
“Ti
comporti così a casa tua? Smerdi in giro?”
Sono
a mezzo metro dal gruppo, seminascosto da un pilastro; ramazzo, taccio, sbircio
tra le ciglia; un tale incravattato chiede: “Cos’ha fatto?” e sento la donna
rispondere: “Ha usato la sala d’attesa come gabinetto.”
“Cosa?
Ha cagato là dentro?”
“Sì,
sulla poltrona," risponde il ragazzotto basso. "E quel tizio è stato
licenziato per colpa sua.”
“Figlio
di…”
“Sì,
figlio di puttana!” grida un ciccione sudato. “Torna da dove sei venuto,
schifoso!”
La
folla cresce. La rabbia pure. Tutti sono certi che il Foresto l’abbia fatta in
sala d’attesa. E che il Corto sia stato licenziato perché l’Ispettore ha
trovato la torta fumante sulla poltrona.
Il
Foresto è circondato, stringe lo zaino tra le braccia, ha la testa incassata
nelle spalle. Aspetta le botte, sa che arriveranno. Non emette un suono mentre
lo spazio intorno a lui si riduce. Il ragazzotto basso fa per sferrargli un
calcio, ma, imbranato come nessuno, calibra male, perde l’equilibrio e cade.
L’altro viene avanti e grida: “Avete visto? Gli ha fatto lo sgambetto, ha fatto
cadere il mio amico!”
Gli
tira un calcio in un fianco ed è come un gong: il tale incravattato immobilizza
il Foresto da dietro, i ragazzotti e il ciccione lo riempiono di calci e pugni
e sberle, perché ha cagato a casa nostra, perché ha fatto licenziare uno di
noi, perché ha picchiato il mio amico, perché mia moglie si scopa il suo capo,
perché la mia faccia è un campo di pustole, perché ho una fame che mangerei
Dio. Perché.
Esauriti
i perché, la folla si spegne, si disperde, ognuno va per la sua strada. La
Vecchia sputa sul corpo del Foresto, tutto bubboni e lividi e sangue. Il
Foresto non si muove. Stringe ancora lo zaino.
Piano,
lento, assicurandomi che nessuno mi veda, vengo fuori da dietro la colonna e mi
avvicino. Una bolla di sangue da una narice si gonfia e scoppia: il Foresto
respira. Chiamo l’ambulanza, ma quando chiedono il mio nome, attacco. Mi faccio
i fatti miei, io. Non voglio guai. Prima di sparire anch’io, leggo sullo zaino
il nome del Foresto.
Un
grave episodio di razzismo si è verificato ieri mattina alla Stazione Centrale.
Lo straniero, Roberto Parodi, è all'ospedale con una prognosi di dieci giorni.
Aveva lasciato l'Italia e la sua città, Genova, solo una settimana fa, in cerca
di un lavoro. Gli aggressori non sono ancora stati individuati.
"Sì. Southmere
Lake, a sud est. Dobbiamo prendere un autobus, un treno, un autobus e fare
un pezzo a piedi."
"Un viaggio. Saremo senza connessione, prendiamo
appunti."
"Già fatto," dice l'Omonero sventolando un
foglietto.
Va’ che squadra!
Un tappo di nebbia inghiotte la cima dei grattacieli e la
pioggia spray fa brillare le ciglia.
A Londra l'autunno fa sul serio e i rossi e i gialli
spiccano sul grigio ovatta del cielo e del marciapiede.
Quasi non parliamo per
tutto il tragitto, rapiti dal paesaggio Silent
Hill.
Scendiamo dall'ultimo autobus e laggiù, sullo sfondo d’acciaio,
ci attendono i Quattro Monoliti.
Sono emozionata e un po' babbea.
Mi assolvo: ognuno si emoziona come gli pare.
Attraversiamo un prato.
"Dici che è qui che seppellivano i cadaveri?"
dice l'Omonero.
"E chi lo sa?" dico io, spallucce.
Di lì a poco, incontriamo il primo cartello:
I volatili non mancano: cigni; anatre; oche; gabbiani; cormorani.
Ma squallore, monnezza e fumi densi fanno delSantuario un
paesaggio post-atomico. Decadente. Affascinante.
Avanti, e secondo cartello:
"È uno scherzo," dico.
"Mi sa di no. Guarda laggiù."
Cavalli. Ovunque. Cavalli nei recinti, cavalli legati con
funi e catene, cavalli liberi di andare dove gli pare: nei prati, per le strade,
cloppetecloppete tra le panchine e gli scivoli dei marmocchi. Ci vedono, si
avvicinano, ci spingono sperando di ottenere uno zuccherino. L'Omonero è
perplesso, io, incosciente e mocciosa, squittisco.
Eravamo preparati a scoiattoli e volpi, ma i cavalli allo
stato brado ci spiazzano sul serio.
"Non ce l'ho lo zuccherino," provo a dire, ma i
bestioni, zampe pelose e ciuffi Emo, sono insistenti.
"Non siamo qui per questo", dice l'Omonero con
una nota inquieta nella voce.
"Sì, ma quando mi ricapita? Uff. Va bene, andiamo."
Pochi passi e terzo cartello:
Quel Risk of Deathecheggia
sinistro. Ma non è inverno e il lago è liquido.
Tiriamo dritto tra gli alberi, i passi che sciaguattano
nel fango.
Una grossa croce segna il punto d'arrivo del
pellegrinaggio. Cento gabbiani prendono il volo e l'Omonero si accartoccia per
paura che gli caghino in testa.
Ma eccoci. Oh cazzo, eccoci.
Ci guardiamo intorno con un sorrisetto pirla, sentendoci
parte di chissà che.
"Entriamo?"
"Mmh," annuisco.
Religiosamente, zitti zitti, varchiamo la soglia.
Pochi passi su una moquette color can che fugge ed eccola lì.