venerdì 30 maggio 2014

Porto le carte, allora.




Tubi
di Etkar Keret
(da Pizzeria Kamikaze, edizioni e/o)


Quando facevo la terza media uno psicologo mi sottopose a dei test attitudinali. Mi mostrò venti figure diverse, una dopo l’altra, domandandomi cosa ci fosse che non andava. A me sembrava tutto a posto ma lui volle mostrarmi di nuovo il primo disegno in cui era raffigurato un bambino. “Cosa c’è che non va in questo bambino?” mi domandò con voce stanca. Gli risposi che non c’era niente che non andava. Lui si arrabbiò moltissimo. “Non vedi che non ha le orecchie?” A dire il vero, ora che lo guardavo attentamente, mi accorsi che al bambino mancavano le orecchie. Il disegno comunque mi sembrava perfettamente a posto. Lo psicologo mi diagnosticò seri problemi di apprendimento e mi esortò a iscrivermi a una scuola professionale, indirizzo falegnameria. Lì scoprii di essere allergico alla segatura e allora mi iscrissi a un corso per saldatori. Al corso me la cavai piuttosto bene, però quella professione non mi piaceva. A dire la verità, niente mi entusiasmava in modo particolare. Dopo il diploma trovai lavoro in una ditta che produceva tubi. Il direttore era un ingegnere laureato al Politecnico. Un ragazzo brillante. Se gli avessi mostrato il disegno di un bambino senza le orecchie, o qualcosa di simile, lui non avrebbe avuto nessuna difficoltà a notare cosa non andava.
Alla fine della giornata di lavoro mi fermavo in fabbrica a costruire tubi contorti che somigliavano a serpenti attorcigliati e vi facevo scorrere delle biglie. Mi rendo conto che sembra un passatempo idiota, e non era nemmeno divertente, però continuavo a farlo.
Una sera costruii un tubo particolarmente contorto, con un sacco di curve e di spirali e quando ci spinsi dentro una biglia, quella non uscì dall’altra estremità. All’inizio pensai che fosse rimasta bloccata a metà percorso, ma dopo aver provato a fare rotolare nel tubo all’incirca una ventina di biglie, capii che sparivano, letteralmente. So che sembra assurdo, perché le biglie non svaniscono nel nulla, questo lo sanno tutti, però non mi sembrava nemmeno tanto strano vederle entrare da un lato e non uscire dall’altro, ritenevo che fosse giusto così. Decisi allora di costruire un tubo molto più grande, secondo il modello del precedente, in cui mi sarei infilato io fino a scomparire. Mentre pensavo questo mi sentii tanto felice che cominciai a ridere; credo che quella fu la prima volta che risi in vita mia.
Quello stesso giorno mi misi a lavorare al tubo gigante. Ogni sera ne completavo una parte e la mattina nascondevo i pezzi in magazzino. Mi ci vollero venti giorni per completarlo, l’ultima notte impiegai cinque ore a montarlo e alla fine occupava quasi metà del capannone.
Quando lo guardai finito, in attesa di entrarci, mi ricordai della mia insegnante di sociologia che una volta aveva spiegato che il primo uomo che aveva usato un bastone non era stato il più forte della tribù, né il più intelligente – uomini come quelli potevano fare a meno di bastoni. Il primo uomo a usare un bastone era stato quello che per ovviare alla sua debolezza e sopravvivere ne aveva avuto semplicemente più bisogno degli altri. Non penso che ci fosse al mondo una persona che desiderasse sparire quanto me e per questo ero stato io a inventare il tubo; io, e non quel brillante ingegnere laureato al Politecnico che dirigeva la fabbrica.
Cominciai a strisciare nel tubo senza sapere cosa mi attendesse dall’altro lato, forse vi avrei trovato dei bambini senza orecchie accoccolati su montagne di biglie. Non so esattamente cosa accadde dopo che ebbi superato un certo punto; so solo che ora mi ritrovo qui.
Penso di essere un angelo. Voglio dire, ho le ali e un’aureola in testa e qui ci sono altre centinaia di creature come me. Quando arrivai in questo posto stavano giocando a biglie: quelle che avevo fatto rotolare io nel tubo qualche settimana prima.
Ho sempre pensato che il paradiso fosse un posto dove va la gente che è stata buona in vita,  ma non è così. Dio è troppo generoso e caritatevole per decidere una cosa simile. Il paradiso è un posto dove va chi non è riuscito a trovare la felicità sulla Terra. Qui mi hanno spiegato che i suicidi si reincarnano perché il fatto di non essere stati felici una volta non vuol dire che non possano esserlo una seconda. Chi non si è mai adattato a vivere, però, trova il modo di arrivare qui. Ognuno segue la propria strada per raggiungere il paradiso.
Ci sono piloti d’aereo che hanno fatto acrobazie in un punto ben preciso del triangolo delle Bermude, casalinghe che si sono infilate dietro la credenza e matematici che hanno scoperto distorsioni spazio-temporali e sono riusciti a intrufolarvisi. Quindi, se davvero non sei felice sulla Terra e c’è chi dice che hai dei seri problemi di apprendimento, cerca anche tu un modo per arrivare qui, e quando lo scoprirai, porta con te un mazzo di carte. Ormai siamo stufi di giocare a biglie.


La bellezza va condivisa. 
Grazie a Francesca Santamaria per Etgar Keret e a Claudio Di Manao per Asaf Avidan.



1 commento:

claudio di manao ha detto...

magnifico
strano,leggero,misterioso,inquietanteq.b.,semplice, minimal,twisted

grazie
per un paio di cose